Chi ha titolo a rivendicare un’eredità culturale?
Sicuramente chi si riconosce nei valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Non certo chi prende il ricordo del testamentario e lo bonifica da quello che non piace e lo riadatta ai suoi tornaconto.
Capita sepsso che quando una persona si appropria di qualcosa che non le appartiene, una volta smaschearata, usi ogni mezzo per non perdere ciò che ha ottenuto impropriamente. Capita spesso che da un errore si passi ad un altro, danto vita ad una vasta catena di errori.
Ancora più triste e meschino è quando qualcuno utilizza legami o ex legami familiari per far credere di essere l’erede culturale e morale di un pensiero che nella pratica e nella teoria è lontanissimo dal suo modo di essere.
Sta scritto nel vangelo di Matteo «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». E’ evidente che i legami familiari non sono in alcun caso conferma di condivisione di ideee, pensieri o azioni.
Capita spesso che un pensisero rivoluzionario venga addomesticato, cloroformizzato, castrato e travisato, in barba a chi lo ha pensato.
Capita spesso che sedicenti eredi si appropriano per i propri interessi, che non sono nobili, di un qualcosa che non solo non hanno condiviso ma non hanno mai nemmeno compreso.
Come si fa ad avere la presunzione di “liberare l’arte dagli artisti” se non la si libera nemmeno dalle istituzioni? Se la si fa imprigionare da convenzioni, vecchie abitudini, pensieri bigotti e soprattutto da tornaconti personali.
Non interveniamo qui sui fatti conseguenti alla rimozione dell’opera “Omaggio Ogiugno” al CAMeC di La Spezia sia perché su quello è già stato detto tanto e soprattutto perché da quella censura è nata l’importante assemblea “Demilitarizzare La Spezia.” Interveniamo, invece, perché ravvisiamo negli indegni comportamenti postumi di qualcuno il tentativo di travisare completamente l’artivismo di cui Giacomo Verde è stato uno dei principali protagonisti.
La presunzione di chi oggi si autoprocalama critica solo perché ha una cattedra all’università, e passa a fare polemiche infantili sui social network ci fa sorridere. Certe cattedre possono imporsi con l’autoritarismo ma non saranno mai autorevoli.
Abbiamo conosciuto Giacomo Verde, che militava negli ultimi suoi anni di vita nei collettivi “Dada Boom” e “SuperAzione” e, che per sua piena scelta aveva rotto con tutto il baronato e le conventincole che oggi provano a riappropriarsi strumentalmente dell’artivimo del Verde. Siamo preoccupati, perché chi pensa che sia legittimo che la repressione attraverso l’azione di un magistato possa mettere bocca sulle espressioni artistiche e chi è pronto a sostenre la censura rischia di mortificare un pensiero rivoluzionario come era quello di Giacomo Verde. Chi si comporta in questo modo è contro il pensiero del Verde che vive nel reo-dadaismo. Giacomo è stato fino all’ultimo con i suoi amici e compagni che ha nominato pure nel testamento. Nel manifesto R3O – DADAISTA è tracciata l’eredità culturale di Giacomo Verde, figlia di una naturale evoluzione che ha visto l’artivista giungervi dopo delusioi, amarezze e sofferenze provenienti da quel mondo accademico che avrebbe dovuto star lui vicino. Quel mondo che mentre lo celebreva da morto, ancora, lo censurava decidendo di non esporre alcune sue opere al CAMeC.
Il reo -dadaismo è dissacrazione è non senso ma è anche critica spietata all’esistente. Soprattutto è azione. Azione erotica e politica, psicanalitica ed onirica. Il reo – daismo è includente e può prevedere infinite “e”. Chi ha gestito la mostra al CAMeC ha rifiutato la “e” e ha imposto una “o” escludente. Evidentemente c’è chi preferisce stare con i militari piuttosto che con gli artivisti. Come si può libeare l’arte dagli artisti se non si è in grado di liberarla dai militari?
Come Dada Viruz Project, abbiamo seguito le vicende e seguiremo il processo che il compagno Alessandro Giannetti ha preteso. Forte delle sue ragioni, forte della solidarietà che è arrivata e sta arrivando da molti artisti e da quasi tutte le realtà politiche della sinistra di classe. Forte del suo legame con Giacomo Verde, Bene ha fatto a ricorrere contro il ridicolo decreto penale di condanna per avere scritto, con il proprio dangue, “demilitarizzare il mondo.”
L’eredità politica e culturale di Giacomo Verde appartiene a chi fino all’ultimo ci ha spezzato il pane assieme, a chi ci ha militato quotidianamente e ne ha condiviso l’indomito spirito critico.
“Verde era un intero universo non solo un piccolo monte.”